“Evidence-based policy making” è un’espressione che ha trovato spazio crescente nel dibattito attorno alle politiche pubbliche a partire dalle ultime legislature del governo liberale inglese tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 del secolo scorso. Essa descrive un modo di attuazione degli interventi pubblici basato più sulle evidenze empiriche che sugli a priori ideologici. Un modo di concepire il ruolo dei governi fondato cioè sul presupposto che quel che è corretto attuare è “ciò che funziona”, non ciò che si ritiene “giusto”: se e solo se una politica è efficace essa ha anche ragione di esistere (Sanderson, 2007; Davies, 2004). Quest’approccio estremamente pragmatico conferisce indubbiamente alla valutazione delle politiche un ruolo sempre più centrale all’interno del dibattito internazionale in materia di intervento pubblico. Documenti ufficiali del governo inglese pubblicati alla fine degli anni ‘90 rilevavano la necessità, da un lato, di pensare alle politiche come interventi basati su fatti ed evidenze, più che come risposte di breve periodo a richieste di gruppi di interesse e, dall’altro, di essere pronti a valutare in ogni momento gli esiti del proprio operato e a discutere pubblicamente delle politiche attuate e della loro efficacia piuttosto che difenderle ‘a prescindere’ (Cabinet Office, 1999). Il rischio principale di una siffatta visione dell’intervento pubblico è quello di focalizzare eccessivamente l’attenzione sugli strumenti, distogliendola dagli obiettivi dell’intervento stesso. Posto che le componenti puramente politiche e normative dell’intervento pubblico hanno a che vedere con visioni pre-analitiche, giudizi di valore, principi etici e questioni sociali, secondo alcuni autori una valutazione rigorosa non può fare a meno di porsi il problema della possibile insussistenza del fallimento di mercato al quale si intende porre rimedio con l’intervento stesso. Pertanto, secondo questa linea di pensiero la valutazione non dovrebbe concentrarsi esclusivamente sull’efficacia dei mezzi per raggiungere obiettivi dati, ma innanzi tutto sulla “desiderabilità” dell’intervento da un punto di vista economico, etico e morale (Sanderson, 2007). Alcuni sostenitori dell’ “Evidence-based Government” sostengono tuttavia che l’attenzione alle evidenze empiriche può essere considerata come una vera e propria ideologia politica in cui fatti, evidenze e discussioni teoriche ed ideologiche convivono e si alimentano, rendendo possibile ridurre a una delle tante variabili della specificazione empirica di un modello di valutazione anche principi dell’etica sociale (Davies, 2004; Rawls, 1972). Questa differenza di opinioni dimostra come alcune questioni cruciali rispetto alla diffusione di metodi “evidence-based” di valutazione delle politiche pubbliche siano ancora irrisolte: qual è il ruolo della valutazione e di chi la esegue? Deve il valutatore interrogarsi sugli obiettivi dell’intervento, o questo è di competenza propria del politico e del policy-maker? E’ il valutatore un politico economico come lo intendeva Federico Caffè (1978), cioè uno scienziato sociale che usa la teoria economica come Musa ispiratrice dell’intervento pubblico? O egli è tipicamente uno statistico economico che applica in modo rigoroso i metodi quantitativi più appropriati all’analisi degli effetti di un dato intervento? Può una teoria normativa della politica economica offrire valido supporto a decisioni inerenti l’intervento pubblico o questo deve essere attuato soltanto in presenza di una valutazione favorevole dei risultati prodotti da interventi analoghi? Queste sono soltanto alcune delle domande che il moderno approccio alla valutazione dell’intervento pubblico rende cogenti, ma ve ne sono molte altre ancora in cerca di una risposta. Attraverso un excursus ragionato sull’evoluzione e la diffusione delle pratiche di valutazione dalle origini ad oggi cercheremo di fornire una risposta ai principali quesiti.
La valutazione delle politiche industriali
BARBIERI, Elisa;
2010
Abstract
“Evidence-based policy making” è un’espressione che ha trovato spazio crescente nel dibattito attorno alle politiche pubbliche a partire dalle ultime legislature del governo liberale inglese tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 del secolo scorso. Essa descrive un modo di attuazione degli interventi pubblici basato più sulle evidenze empiriche che sugli a priori ideologici. Un modo di concepire il ruolo dei governi fondato cioè sul presupposto che quel che è corretto attuare è “ciò che funziona”, non ciò che si ritiene “giusto”: se e solo se una politica è efficace essa ha anche ragione di esistere (Sanderson, 2007; Davies, 2004). Quest’approccio estremamente pragmatico conferisce indubbiamente alla valutazione delle politiche un ruolo sempre più centrale all’interno del dibattito internazionale in materia di intervento pubblico. Documenti ufficiali del governo inglese pubblicati alla fine degli anni ‘90 rilevavano la necessità, da un lato, di pensare alle politiche come interventi basati su fatti ed evidenze, più che come risposte di breve periodo a richieste di gruppi di interesse e, dall’altro, di essere pronti a valutare in ogni momento gli esiti del proprio operato e a discutere pubblicamente delle politiche attuate e della loro efficacia piuttosto che difenderle ‘a prescindere’ (Cabinet Office, 1999). Il rischio principale di una siffatta visione dell’intervento pubblico è quello di focalizzare eccessivamente l’attenzione sugli strumenti, distogliendola dagli obiettivi dell’intervento stesso. Posto che le componenti puramente politiche e normative dell’intervento pubblico hanno a che vedere con visioni pre-analitiche, giudizi di valore, principi etici e questioni sociali, secondo alcuni autori una valutazione rigorosa non può fare a meno di porsi il problema della possibile insussistenza del fallimento di mercato al quale si intende porre rimedio con l’intervento stesso. Pertanto, secondo questa linea di pensiero la valutazione non dovrebbe concentrarsi esclusivamente sull’efficacia dei mezzi per raggiungere obiettivi dati, ma innanzi tutto sulla “desiderabilità” dell’intervento da un punto di vista economico, etico e morale (Sanderson, 2007). Alcuni sostenitori dell’ “Evidence-based Government” sostengono tuttavia che l’attenzione alle evidenze empiriche può essere considerata come una vera e propria ideologia politica in cui fatti, evidenze e discussioni teoriche ed ideologiche convivono e si alimentano, rendendo possibile ridurre a una delle tante variabili della specificazione empirica di un modello di valutazione anche principi dell’etica sociale (Davies, 2004; Rawls, 1972). Questa differenza di opinioni dimostra come alcune questioni cruciali rispetto alla diffusione di metodi “evidence-based” di valutazione delle politiche pubbliche siano ancora irrisolte: qual è il ruolo della valutazione e di chi la esegue? Deve il valutatore interrogarsi sugli obiettivi dell’intervento, o questo è di competenza propria del politico e del policy-maker? E’ il valutatore un politico economico come lo intendeva Federico Caffè (1978), cioè uno scienziato sociale che usa la teoria economica come Musa ispiratrice dell’intervento pubblico? O egli è tipicamente uno statistico economico che applica in modo rigoroso i metodi quantitativi più appropriati all’analisi degli effetti di un dato intervento? Può una teoria normativa della politica economica offrire valido supporto a decisioni inerenti l’intervento pubblico o questo deve essere attuato soltanto in presenza di una valutazione favorevole dei risultati prodotti da interventi analoghi? Queste sono soltanto alcune delle domande che il moderno approccio alla valutazione dell’intervento pubblico rende cogenti, ma ve ne sono molte altre ancora in cerca di una risposta. Attraverso un excursus ragionato sull’evoluzione e la diffusione delle pratiche di valutazione dalle origini ad oggi cercheremo di fornire una risposta ai principali quesiti.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.