Esiste davvero una «classe creativa»? Il problema è stato sollevato dall’economista statunitense Richard Florida (2002), che ha proposto un modello di stratificazione sociale in cui la creative class occupa il ruolo di nuova protagonista della società americana. Lo studio ha trasformato la creatività in un tema centrale di dibattito nelle scienze sociali, fornendo lo spunto per un’indagine analoga anche in Italia (Amadasi e Salvemini, a cura di, 2005). La linea di ricerca che si è finora delineata consiste essenzialmente nel definire un numero più o meno ampio di professioni creative, per poi pesare la loro consistenza numerica all’interno della società. In queste pagine voglio suggerire ai creativity studies una diversa direzione di ricerca, presentando due aspetti complementari dell’indagine sulla creatività. In primo luogo, mi sembra più che mai necessario ricostruire una «semantica sociologica» della creatività, parola dalla biografia unica e complessa, il cui significato è cambiato durante il suo pellegrinaggio tra circoli sociali e ambiti disciplinari diversi (la religione, l’arte, la scienza, la psicologia, e infine la sociologia e il mondo della vita quotidiana). In secondo luogo, ritengo utile indagare le pratiche (creative) di alcune categorie professionali attraverso un approccio alternativo a quello di Florida, e cioè adottando una metodologia non standard. Il discorso sui creativi può essere così svincolato dalla riflessione sulle classi e ricondotto a una prospettiva culturale. Il testo è articolato in quattro sezioni. La prima definisce il fenomeno della creatività attraverso la sua riconcettualizzazione sociologica e ne individua quattro dimensioni costituitive: novità, utilità, fantasia e concretezza. Nella seconda parte viene presentata una ricerca empirica esplorativa condotta mediante interviste a 12 testimoni privilegiati, scelti tra professionisti milanesi operanti in quattro settori creativi: il teatro, l’arte, l’informatica e la pubblicità. Oggetto di riflessione sono la metodologia utilizzata, le caratteristiche di Milano come terreno di indagine ed il profilo dei creativi quale emerge dalla letteratura sociologica. La terza sezione espone in risultati della ricerca, da cui emerge un profilo sfaccettato dei professionisti creativi, che molto hanno in comune con gli intermediari culturali descritti da Bourdieu (1979) e Bovone (a cura di, 1994). La creatività non è «agita» esclusivamente come dono o talento, secondo una visione romantica e ormai superata, ma è piuttosto una risorsa che nasce da un percorso lavorativo faticoso e non lineare e viene spesa come valore aggiunto nel campo della cultura e della professione. Se ne può trarre un modello idealtipico dei lavoratori creativi, nel quale includere anche una frammentazione degli stili di vita e dei percorsi professionali che non permette loro di riconoscersi reciprocamente come membri di uno stesso gruppo sociale. Nel processo di cambiamento del ceto medio i creativi, con la loro «incoscienza di classe», si trovano a costituire gli eredi degli intermediari culturali. I nodi problematici emersi da questa analisi vengono discussi nella quarta parte, quella conclusiva, dove ci si interroga sulla validità della categoria di «classe» nello studio delle professioni creative.
Incoscienza di classe: un profilo dei professionisti creativi milanesi
PEDRONI M.
2009
Abstract
Esiste davvero una «classe creativa»? Il problema è stato sollevato dall’economista statunitense Richard Florida (2002), che ha proposto un modello di stratificazione sociale in cui la creative class occupa il ruolo di nuova protagonista della società americana. Lo studio ha trasformato la creatività in un tema centrale di dibattito nelle scienze sociali, fornendo lo spunto per un’indagine analoga anche in Italia (Amadasi e Salvemini, a cura di, 2005). La linea di ricerca che si è finora delineata consiste essenzialmente nel definire un numero più o meno ampio di professioni creative, per poi pesare la loro consistenza numerica all’interno della società. In queste pagine voglio suggerire ai creativity studies una diversa direzione di ricerca, presentando due aspetti complementari dell’indagine sulla creatività. In primo luogo, mi sembra più che mai necessario ricostruire una «semantica sociologica» della creatività, parola dalla biografia unica e complessa, il cui significato è cambiato durante il suo pellegrinaggio tra circoli sociali e ambiti disciplinari diversi (la religione, l’arte, la scienza, la psicologia, e infine la sociologia e il mondo della vita quotidiana). In secondo luogo, ritengo utile indagare le pratiche (creative) di alcune categorie professionali attraverso un approccio alternativo a quello di Florida, e cioè adottando una metodologia non standard. Il discorso sui creativi può essere così svincolato dalla riflessione sulle classi e ricondotto a una prospettiva culturale. Il testo è articolato in quattro sezioni. La prima definisce il fenomeno della creatività attraverso la sua riconcettualizzazione sociologica e ne individua quattro dimensioni costituitive: novità, utilità, fantasia e concretezza. Nella seconda parte viene presentata una ricerca empirica esplorativa condotta mediante interviste a 12 testimoni privilegiati, scelti tra professionisti milanesi operanti in quattro settori creativi: il teatro, l’arte, l’informatica e la pubblicità. Oggetto di riflessione sono la metodologia utilizzata, le caratteristiche di Milano come terreno di indagine ed il profilo dei creativi quale emerge dalla letteratura sociologica. La terza sezione espone in risultati della ricerca, da cui emerge un profilo sfaccettato dei professionisti creativi, che molto hanno in comune con gli intermediari culturali descritti da Bourdieu (1979) e Bovone (a cura di, 1994). La creatività non è «agita» esclusivamente come dono o talento, secondo una visione romantica e ormai superata, ma è piuttosto una risorsa che nasce da un percorso lavorativo faticoso e non lineare e viene spesa come valore aggiunto nel campo della cultura e della professione. Se ne può trarre un modello idealtipico dei lavoratori creativi, nel quale includere anche una frammentazione degli stili di vita e dei percorsi professionali che non permette loro di riconoscersi reciprocamente come membri di uno stesso gruppo sociale. Nel processo di cambiamento del ceto medio i creativi, con la loro «incoscienza di classe», si trovano a costituire gli eredi degli intermediari culturali. I nodi problematici emersi da questa analisi vengono discussi nella quarta parte, quella conclusiva, dove ci si interroga sulla validità della categoria di «classe» nello studio delle professioni creative.I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.