Il regime delle informazioni volontarie si fonda su alcuni capisaldi. Il primo è l’esistenza di un numero “chiuso” di informazioni obbligatorie, non lasciate alla libertà dell’operatore, stabilite dalle norme UE con disciplina dettagliata di oggetto, contenuti, modalità di espressione e altri requisiti, sovente – soprattutto nel caso dell’Italia – integrate dagli ordinamenti nazionali. Il secondo è la liceità in sé (sancita dall’art. 36, reg. UE n. 1169/2011) dell’aggiunta di un numero potenzialmente illimitato di informazioni volontarie. Il terzo sono i peculiari requisiti di legittimità che lo stesso art. 36 stabilisce per queste ultime: non essere confusive o ambigue, avere fondamento scientifico (“se del caso”) e, in generale, rispettare le pratiche leali di informazione (ossia l’art. 7 del regolamento). Tra gli infiniti messaggi ulteriori rispetto a quelli obbligatori, e dunque volontari, secondo il citato art. 36 alcuni attendono dalla Commissione l’adozione di una disciplina specifica. Si tratta di: (i) alcuni parametri aggiuntivi di calcolo della dichiarazione nutrizionale; (ii) informazioni relative all’idoneità di un alimento per vegetariani o vegani, sempre più diffuse, per le quali – in mancanza di standard normativi – le lacune sono colmate da standard privati collegati a marchi collettivi, la cui reputazione di mercato finisce per sostituire la forza vincolante della legge (un fenomeno che si sta sperimentando anche in altre “nicchie” di mercato, come quella dei prodotti “biodinamici”, “khosher” e “halal”); (iii) segnalazioni di possibile presenza non intenzionale di tracce di allergeni, con tutto il fenomeno delle informazioni “may contain”, volontarie sul piano giuridico, ma di fatto sempre più imposte contrattualmente dagli standard della GDO; (iv) informazioni sull’assenza di glutine o sulla sua presenza in misura ridotta, unico tema, fra questi quattro, già regolamentato dalla Commissione: è il “gemello diverso” dei claims salutistici, ed è anche l’unico “claim” di tipo “free-from” attualmente dotato di disciplina apposita (tutti gli altri, inclusi quelli riferiti ad altri allergeni ne sono privi, con effetti a volte curiosi: “senza glutine” è compatibile con tracce fino a 20 mg/kg, mentre “senza lattosio” esige un’assenza totale). Le numerose criticità del sistema sono collegate in parte alla concezione delle norme sostanziali appena citate in tema di informazioni volontarie, in parte a più generali problematiche di funzionamento del sistema sanzionatorio amministrativo. Fra le prime, la più evidente è certamente il fatto che la valutazione di legittimità delle informazioni volontarie si basi clausole generali di significato amplissimo, e quindi il controllo ufficiale si regga su una valutazione prognostica: l’ambiguità, la confusività e la capacità di indurre in errore devono essere valutate a priori, e non a posteriori, con tutto ciò che ne consegue per via dell’enorme margine di discrezionalità lasciato ai controllori, ognuno con la propria idea di ciò che è “ambiguo”, “confusivo”, ecc. Si aggiunga che, in Italia, il d.lgs. n. 231/2017 (contenente le disposizioni sanzionatorie per le violazioni del regolamento n. 1169/2011) è caratterizzato da fattispecie di non sempre impeccabile costruzione, di difficile interpretazione, e con possibili sovrapposizioni e duplicazioni. Ne possono conseguire storture che si percepiscono solo in fase applicativa: una piccola impresa (cui potrebbero essere mancate la sensibilità o le risorse per prevenire possibili violazioni, magari commesse con ingenue e veritiere, ma poco chiare, affermazioni di marketing) rischia di vedersi applicare importi molto elevati, tali da minarne persino la stabilità finanziaria; sanzioni la cui afflittività è a volte pari, o superiore, a quella di punizioni per illeciti che offendono beni più rilevanti (igiene e sicurezza). A ciò si aggiunga l’assenza di criteri realmente efficienti di commisurazione della sanzione alle dimensioni dell’impresa (i benefici per le microimprese non bastano, la graduazione fra il minimo e il massimo edittale è vanificata dall’utilizzo di automatismi più comodi per le amministrazioni, e comunque nasce per altri scopi). Infine, va registrata la massima discrezionalità lasciata alle amministrazioni nell’uso del sequestro amministrativo, spesso brandito alla stregua di una sanzione accessoria (quale non è). Il tutto con effetti inflattivi del contenzioso (cui gli operatori ricorrono più volentieri, dopo il notevole incremento medio dell’entità delle sanzioni, operato dal d.lgs. n. 231/2017 rispetto alla disciplina previgente del d.lgs. n. 109/92). L’autentica saturazione degli Uffici del Giudice di Pace, e in minor misura dei Tribunali, richiama il legislatore alla probabile necessità di istituzionalizzare meccanismi di ADR anche in questo campo.

Le informazioni volontarie nella disciplina della etichettatura degli alimenti

Borghi P.
2020

Abstract

Il regime delle informazioni volontarie si fonda su alcuni capisaldi. Il primo è l’esistenza di un numero “chiuso” di informazioni obbligatorie, non lasciate alla libertà dell’operatore, stabilite dalle norme UE con disciplina dettagliata di oggetto, contenuti, modalità di espressione e altri requisiti, sovente – soprattutto nel caso dell’Italia – integrate dagli ordinamenti nazionali. Il secondo è la liceità in sé (sancita dall’art. 36, reg. UE n. 1169/2011) dell’aggiunta di un numero potenzialmente illimitato di informazioni volontarie. Il terzo sono i peculiari requisiti di legittimità che lo stesso art. 36 stabilisce per queste ultime: non essere confusive o ambigue, avere fondamento scientifico (“se del caso”) e, in generale, rispettare le pratiche leali di informazione (ossia l’art. 7 del regolamento). Tra gli infiniti messaggi ulteriori rispetto a quelli obbligatori, e dunque volontari, secondo il citato art. 36 alcuni attendono dalla Commissione l’adozione di una disciplina specifica. Si tratta di: (i) alcuni parametri aggiuntivi di calcolo della dichiarazione nutrizionale; (ii) informazioni relative all’idoneità di un alimento per vegetariani o vegani, sempre più diffuse, per le quali – in mancanza di standard normativi – le lacune sono colmate da standard privati collegati a marchi collettivi, la cui reputazione di mercato finisce per sostituire la forza vincolante della legge (un fenomeno che si sta sperimentando anche in altre “nicchie” di mercato, come quella dei prodotti “biodinamici”, “khosher” e “halal”); (iii) segnalazioni di possibile presenza non intenzionale di tracce di allergeni, con tutto il fenomeno delle informazioni “may contain”, volontarie sul piano giuridico, ma di fatto sempre più imposte contrattualmente dagli standard della GDO; (iv) informazioni sull’assenza di glutine o sulla sua presenza in misura ridotta, unico tema, fra questi quattro, già regolamentato dalla Commissione: è il “gemello diverso” dei claims salutistici, ed è anche l’unico “claim” di tipo “free-from” attualmente dotato di disciplina apposita (tutti gli altri, inclusi quelli riferiti ad altri allergeni ne sono privi, con effetti a volte curiosi: “senza glutine” è compatibile con tracce fino a 20 mg/kg, mentre “senza lattosio” esige un’assenza totale). Le numerose criticità del sistema sono collegate in parte alla concezione delle norme sostanziali appena citate in tema di informazioni volontarie, in parte a più generali problematiche di funzionamento del sistema sanzionatorio amministrativo. Fra le prime, la più evidente è certamente il fatto che la valutazione di legittimità delle informazioni volontarie si basi clausole generali di significato amplissimo, e quindi il controllo ufficiale si regga su una valutazione prognostica: l’ambiguità, la confusività e la capacità di indurre in errore devono essere valutate a priori, e non a posteriori, con tutto ciò che ne consegue per via dell’enorme margine di discrezionalità lasciato ai controllori, ognuno con la propria idea di ciò che è “ambiguo”, “confusivo”, ecc. Si aggiunga che, in Italia, il d.lgs. n. 231/2017 (contenente le disposizioni sanzionatorie per le violazioni del regolamento n. 1169/2011) è caratterizzato da fattispecie di non sempre impeccabile costruzione, di difficile interpretazione, e con possibili sovrapposizioni e duplicazioni. Ne possono conseguire storture che si percepiscono solo in fase applicativa: una piccola impresa (cui potrebbero essere mancate la sensibilità o le risorse per prevenire possibili violazioni, magari commesse con ingenue e veritiere, ma poco chiare, affermazioni di marketing) rischia di vedersi applicare importi molto elevati, tali da minarne persino la stabilità finanziaria; sanzioni la cui afflittività è a volte pari, o superiore, a quella di punizioni per illeciti che offendono beni più rilevanti (igiene e sicurezza). A ciò si aggiunga l’assenza di criteri realmente efficienti di commisurazione della sanzione alle dimensioni dell’impresa (i benefici per le microimprese non bastano, la graduazione fra il minimo e il massimo edittale è vanificata dall’utilizzo di automatismi più comodi per le amministrazioni, e comunque nasce per altri scopi). Infine, va registrata la massima discrezionalità lasciata alle amministrazioni nell’uso del sequestro amministrativo, spesso brandito alla stregua di una sanzione accessoria (quale non è). Il tutto con effetti inflattivi del contenzioso (cui gli operatori ricorrono più volentieri, dopo il notevole incremento medio dell’entità delle sanzioni, operato dal d.lgs. n. 231/2017 rispetto alla disciplina previgente del d.lgs. n. 109/92). L’autentica saturazione degli Uffici del Giudice di Pace, e in minor misura dei Tribunali, richiama il legislatore alla probabile necessità di istituzionalizzare meccanismi di ADR anche in questo campo.
2020
978-88-9391-948-7
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