Nel 1931, in Piccola storia della fotografia Walter Benjamin scriveva che “la rinuncia alla presenza umana è, per la fotografia, la più inattuabile”. A quasi Novant’anni di distanza, colpiti quotidianamente da una irriducibile quantità di immagini che danno forma al nostro modo di vedere e percepire la realtà, la frase del filosofo tedesco risuona ancora incredibilmente attuale. Accanto al ruolo di testimone diretto degli eventi che attestano e conservano le memorie della storia, la fotografia continua, oggi più che mai, a riconfermare la sua estetica come opera d’arte. In questo l’individuo, ritratto nei suoi aspetti culturali ed emozionali, segue ad essere il primo soggetto della rappresentazione. All’interno delle comunità indigene di San Juan Chamula e Tenejapa, nello stato messicano del Chiapas, l’uso della macchina fotografica non è particolarmente apprezzato. L’immagine fotografica, vissuta come un’aggressione esterna alle norme della tradizione con ricadute sull’intera collettività, si combina con forme di promozione a scopi turistici che modificano gli stili di vita e i ritmi quotidiani dei pueblos. Eppure, se è vero, sulla scia di quanto scrive Vilém Flusser (1983), che attraverso la pratica fotografica si possa aprire uno spazio di libertà per l’uomo, questo può avvenire laddove i soggetti riescano a ridefinire, attraverso l’immagine, le loro credenze e le modalità di rappresentarle all’interno del proprio contesto culturale. È questo il caso delle fotografie di artisti chiapanechi come Abraham Gómez, Juana López López e Marco Girón: nei loro lavori la fotografia diventa azione creativa, ripensa la tradizione e le esperienze religiose. L’atto fotografico si fa così rituale, diviene una prassi utile a riconfigurare un nuovo ordine dell’esistenza e dell’agire nel mondo. La creatività entra in questo modo a far parte dei processi di definizione identitaria, riposiziona il proprio essere e gli spazi d’azione sociale. L’immagine fotografica, come simbolo complesso, è una narrazione che aiuta in ultima istanza a originare dialoghi su diverse prospettive future, trattenendo pur sempre un ricordo incancellabile di ciò che era. In questo risiede la bellezza più intima della fotografia: portare memoria del passato e al contempo trovarsi nella fisicità del presente, al fine di proporre nuovi punti di vista e modalità di comprendere il reale. Così scriveva Susan Sontag negli anni Settanta: “È abituale che coloro che hanno visto qualcosa di bello si dicano dispiaciuti di non aver potuto fotografarlo. E il successo della macchina fotografica nell’abbellire il mondo è stato tale che ora sono le fotografie, e non il mondo, il modello della bellezza” (Sontag 2004:74). Se il flusso di immagini a cui siamo costantemente esposti produce continuamente nuovi canoni estetici, imponendosi di volta in volta come modello di riferimento, l’atto fotografico potrebbe forse essere considerato a tutti gli effetti non solo una forma di bellezza rituale, bensì, in senso più stretto, un rituale della bellezza in tutte le sue declinazioni.

“La fotografia come bellezza rituale. Forme di autorappresentazione in due comunità indigene del Chiapas (Messico). Memorie di un’etnografia”

BELLUTO, Martina
2018

Abstract

Nel 1931, in Piccola storia della fotografia Walter Benjamin scriveva che “la rinuncia alla presenza umana è, per la fotografia, la più inattuabile”. A quasi Novant’anni di distanza, colpiti quotidianamente da una irriducibile quantità di immagini che danno forma al nostro modo di vedere e percepire la realtà, la frase del filosofo tedesco risuona ancora incredibilmente attuale. Accanto al ruolo di testimone diretto degli eventi che attestano e conservano le memorie della storia, la fotografia continua, oggi più che mai, a riconfermare la sua estetica come opera d’arte. In questo l’individuo, ritratto nei suoi aspetti culturali ed emozionali, segue ad essere il primo soggetto della rappresentazione. All’interno delle comunità indigene di San Juan Chamula e Tenejapa, nello stato messicano del Chiapas, l’uso della macchina fotografica non è particolarmente apprezzato. L’immagine fotografica, vissuta come un’aggressione esterna alle norme della tradizione con ricadute sull’intera collettività, si combina con forme di promozione a scopi turistici che modificano gli stili di vita e i ritmi quotidiani dei pueblos. Eppure, se è vero, sulla scia di quanto scrive Vilém Flusser (1983), che attraverso la pratica fotografica si possa aprire uno spazio di libertà per l’uomo, questo può avvenire laddove i soggetti riescano a ridefinire, attraverso l’immagine, le loro credenze e le modalità di rappresentarle all’interno del proprio contesto culturale. È questo il caso delle fotografie di artisti chiapanechi come Abraham Gómez, Juana López López e Marco Girón: nei loro lavori la fotografia diventa azione creativa, ripensa la tradizione e le esperienze religiose. L’atto fotografico si fa così rituale, diviene una prassi utile a riconfigurare un nuovo ordine dell’esistenza e dell’agire nel mondo. La creatività entra in questo modo a far parte dei processi di definizione identitaria, riposiziona il proprio essere e gli spazi d’azione sociale. L’immagine fotografica, come simbolo complesso, è una narrazione che aiuta in ultima istanza a originare dialoghi su diverse prospettive future, trattenendo pur sempre un ricordo incancellabile di ciò che era. In questo risiede la bellezza più intima della fotografia: portare memoria del passato e al contempo trovarsi nella fisicità del presente, al fine di proporre nuovi punti di vista e modalità di comprendere il reale. Così scriveva Susan Sontag negli anni Settanta: “È abituale che coloro che hanno visto qualcosa di bello si dicano dispiaciuti di non aver potuto fotografarlo. E il successo della macchina fotografica nell’abbellire il mondo è stato tale che ora sono le fotografie, e non il mondo, il modello della bellezza” (Sontag 2004:74). Se il flusso di immagini a cui siamo costantemente esposti produce continuamente nuovi canoni estetici, imponendosi di volta in volta come modello di riferimento, l’atto fotografico potrebbe forse essere considerato a tutti gli effetti non solo una forma di bellezza rituale, bensì, in senso più stretto, un rituale della bellezza in tutte le sue declinazioni.
2018
978-88-943630-0-5
antropologia visuale, etnografia, fotografia, Chiapas
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
La fotografia come bellezza rituale_Martina Belluto.pdf

solo gestori archivio

Descrizione: Full text editoriale
Tipologia: Full text (versione editoriale)
Licenza: NON PUBBLICO - Accesso privato/ristretto
Dimensione 348.05 kB
Formato Adobe PDF
348.05 kB Adobe PDF   Visualizza/Apri   Richiedi una copia

I documenti in SFERA sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11392/2404936
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact