Secondo la tesi dei “diritti come ragioni”, sostenuta dai neo-costituzionalisti, ai diritti fondamentali compete l’adempimento di tre funzioni: la funzione riformatrice della società globalizzata, la funzione della tutela dei valori e delle scelte individuali e la funzione di rivoluzione dell’ordinamento e del sistema delle fonti del diritto. Rispetto a questa terza funzione, la cui fondatezza poggia su un presunto superamento del sistema piramidale kelseniano, i diritti fondamentali si distinguono in base alla fonte extra ordinem da cui promanano: talvolta, in quanto riflesso di esigenze, desideri e aspettative della società contemporanea, hanno fonte morale (moral rights); quando, invece, la fonte è argomentativa o creativa ex novo, essi scaturiscono da argomenti etico-politici che ne giustificano l’infinita gemmazione a partire da uno specifico core right; infine, in quanto frutto dell’interpretazione evolutiva delle Corti costituzionali, delle Corti supreme e delle Alte Corti, possono avere fonte giurisprudenziale. Oggi la tesi dei “diritti come ragioni” si palesa quale l’esito più radicale del paradosso del costituzionalismo contemporaneo. Peraltro, nell’età del diritto globale, la tesi dei “diritti come ragioni” sembra porsi in netta antitesi con le stesse premesse da cui prende le mosse. Essa presta così il fianco a numerose critiche, di cui mi accingo a fornire in questo abstract una parziale e sommaria trattazione. In primo luogo, la rivendicazione di un nuovo diritto, che l’espressione “diritti come ragioni” sembra suggerire, pur in difetto di un effettivo riconoscimento normativo, pone due problemi interconnessi. Quanto al problema della giustiziabilità, il rischio è di avere a che fare con “diritti di carta”, che tanto la mancanza di una specifica fonte di jus cogens quanto l’onere della rivendicazione in capo al soggetto debole, titolare dell'aspettativa non riconosciuta, concorrono a rendere, appunto, non giustiziabili. Quanto, invece, al secondo problema, se la capacità di rivendicare qualcosa funge da necessario presupposto dei diritti “come ragioni”, si deve supporre che già qualcuno abbia il previo potere di disconoscerli. In secondo luogo, è concreto il rischio che a diritti “innominati”, creati ex novo “per argomentazione”, non corrisponda alcun dovere istituzionale attivo di tutela. Infine, occorre distinguere tra diritti e interessi di cui si auspica la protezione: i diritti come grounds of duties sono solamente interessi o esigenze morali. Per usare le parole di Jeremy: la fame non è il pane, ossia gli interessi auspicati non sono (ancora) diritti. In conclusione, ciò che intendo sostenere è che la tesi dei diritti come ragioni non ha alcuna capacità di intaccare la forma gerarchica delle fonti del diritto, né ha la forza di destrutturare le fonti in una struttura reticolare orizzontale-agerarchica. Essa è semplicemente l’esito ideologico di una particolare concezione del bene: quella concezione politica in forza della quale una società ragionevole per essere tale deve basarsi solo sul linguaggio dei diritti liberali. __________________________________________________________________________

I diritti come ragioni. Una nuova rimodulazione delle fonti o una antica formula magica?

Enrico Maestri
2017

Abstract

Secondo la tesi dei “diritti come ragioni”, sostenuta dai neo-costituzionalisti, ai diritti fondamentali compete l’adempimento di tre funzioni: la funzione riformatrice della società globalizzata, la funzione della tutela dei valori e delle scelte individuali e la funzione di rivoluzione dell’ordinamento e del sistema delle fonti del diritto. Rispetto a questa terza funzione, la cui fondatezza poggia su un presunto superamento del sistema piramidale kelseniano, i diritti fondamentali si distinguono in base alla fonte extra ordinem da cui promanano: talvolta, in quanto riflesso di esigenze, desideri e aspettative della società contemporanea, hanno fonte morale (moral rights); quando, invece, la fonte è argomentativa o creativa ex novo, essi scaturiscono da argomenti etico-politici che ne giustificano l’infinita gemmazione a partire da uno specifico core right; infine, in quanto frutto dell’interpretazione evolutiva delle Corti costituzionali, delle Corti supreme e delle Alte Corti, possono avere fonte giurisprudenziale. Oggi la tesi dei “diritti come ragioni” si palesa quale l’esito più radicale del paradosso del costituzionalismo contemporaneo. Peraltro, nell’età del diritto globale, la tesi dei “diritti come ragioni” sembra porsi in netta antitesi con le stesse premesse da cui prende le mosse. Essa presta così il fianco a numerose critiche, di cui mi accingo a fornire in questo abstract una parziale e sommaria trattazione. In primo luogo, la rivendicazione di un nuovo diritto, che l’espressione “diritti come ragioni” sembra suggerire, pur in difetto di un effettivo riconoscimento normativo, pone due problemi interconnessi. Quanto al problema della giustiziabilità, il rischio è di avere a che fare con “diritti di carta”, che tanto la mancanza di una specifica fonte di jus cogens quanto l’onere della rivendicazione in capo al soggetto debole, titolare dell'aspettativa non riconosciuta, concorrono a rendere, appunto, non giustiziabili. Quanto, invece, al secondo problema, se la capacità di rivendicare qualcosa funge da necessario presupposto dei diritti “come ragioni”, si deve supporre che già qualcuno abbia il previo potere di disconoscerli. In secondo luogo, è concreto il rischio che a diritti “innominati”, creati ex novo “per argomentazione”, non corrisponda alcun dovere istituzionale attivo di tutela. Infine, occorre distinguere tra diritti e interessi di cui si auspica la protezione: i diritti come grounds of duties sono solamente interessi o esigenze morali. Per usare le parole di Jeremy: la fame non è il pane, ossia gli interessi auspicati non sono (ancora) diritti. In conclusione, ciò che intendo sostenere è che la tesi dei diritti come ragioni non ha alcuna capacità di intaccare la forma gerarchica delle fonti del diritto, né ha la forza di destrutturare le fonti in una struttura reticolare orizzontale-agerarchica. Essa è semplicemente l’esito ideologico di una particolare concezione del bene: quella concezione politica in forza della quale una società ragionevole per essere tale deve basarsi solo sul linguaggio dei diritti liberali. __________________________________________________________________________
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